lunedì 14 ottobre 2013

Capitolo 1

Dovevo andare a Javea da Amelie ma non lo feci. Ero stufo della nostra relazione, annoiato dalle sue bizze e non la trovavo piú bella, per quanto lo fosse. Ero seduto al tavolo del bar nel parco di Russafa ed avevo davanti a me una birra, la terza, una gran voglia di andare a letto per quanto fossero solo le sei, e tre amici giá ubriachi che volevano restassi con loro. Il sole passava bollente tra gli alberi mentre troppi bambini facevano rumore ignorati dai genitori. Josephine mi mise al collo una collana gigante con una croce di brillanti finti. I suoi capelli biondi e gli occhi azzurri riflettevano una luce dorata.. Il cameriere osservava la scena divertito come Antonio e Francesca che mi puntavano il dito addosso. Il sabato sera bussava alle porte ma il calore e la stanchezza mi stavano frenando. Bevvi un lungo sorso di birra, era amarognola, fredda e frizzante ma non mi tirava su. Avevo la camicia azzurra puntellata di gocce di sudore ed i pantaloni corti appiccicati alle gambe. Mangiai un’oliva nella speranza che mi rinfrescasse e scolai il bicchiere perché l’alcohol facesse effetto piú in fretta. Gli altri erano carichi, io troppo pensieroso.
<Qué te pasa, Alessandro> sbottó Josephine col suo forte accento francese.
<Sono stanco, non dormo bene da piú di mese>
<Non hai il fisico> fece Antonio.
<Gli manca Amelie…> disse ironicamente Josephine.
<No, affatto. Sono morto.>
Continuarono a scherzare ancora un po’ ed io sembravo un estraneo visto che ero giú di corda e assonnato.
<Stasera tapas e fiesta, ci sta benissimo, domani è domenica e lunedí si lavora> sentenzió Antonio  baciando Francesca e finendosi la birra.
<Sei geloso perché Zapa sta con Amelie e tu no> continuó Josephine stavolta con un tono piú serio.
<No, sono stanco! Se avessi voluto sarei andato>
<Non siete una coppia, non sembrate una coppia>
<Non lo siamo, hai ragione>
<Falla finita, andiamo a mangiare> incalzó Antonio.
Dovevo svegliarmi, trovare le forze ed iniziare a divertirmi. Proposi un giro di chupitos di rum e tutti furono d’accordo. Li ordinai e brindammo allegramente al fine settimana. Il cameriere continuava a spassarsela vedendo che il nostro stato iniziava a peggiorare. Il liquido mi scese prepotentemente giú nell’esofago fino allo stomaco. Finii il bicchiere in un solo sorso e cosí fecero anche gli altri. Quindi ci facemmo un altro giro e poi un altro ancora.
Francesca aveva il viso tondo ed un sorriso stampato che non riusciva a togliersi di dosso, i capelli scuri erano appesantiti dall’umidità ed aveva uno sguardo felicemente perso. Amava Antonio alla follia ma lui era chiuso nel suo razionalismo. Antonio si tolse i grossi occhiali neri per asciugarsi il sudore che gli era scivolato negli occhi ed intorno al naso. Tornai a rendermi conto di avere addosso quella collana pacchiana, vidi un fiore caduto dall’albero e me lo misi sopra l’orecchio destro. Qualcuno mi indicó da un tavolo accanto e quasi tutta la gente seduta fuori del bar inizió a ridere. Io rispondevo con occhiate accondiscendenti. Avremmo dovuto chiedere il conto ma l’atmosfera era troppo festosa e nessuno aveva il coraggio di rompere l’incanto. Francesca si fece improvvisamente piú loquace, si agitava sulla sedia e muoveva la testa a destra e a sinistra in un dondolio dolce.
<Stai meglio?> mi fece.
<Sí, si vede?>
<Si nota… Tranquillo che stasera ci divertiamo>
<Lo so, ora sto bene>
Antonio e Josephine stavano dando vita ad un dibattito incompresibile quindi Francesca ed io potemmo proseguire indisturbati senza essere ascoltati.
<É finito tutto con Amelie?>
<No, non lo so. Ufficialmente no. Per me sí. Credo.>
<Ti ha rotto troppo le scatole..>
<Mi ha ignorato, è diverso!>
<Ti ha trattato da schifo, dillo!>
<Si crede irresistibile, come fosse l’unica bella ragazza al mondo. Un giorno mi odia e l’altro non puó vivere senza di me. Ora che non la cerco piú è diventata pesante. Ieri notte mi ha chiamato dieci volte.>
<Dieci?>
<O dodici>
<Nemmeno voleva uscire con te il venerdí sera..>
<Non fa per me…>
<É francese Alessa’!>
<Mai piú con una francese!>
<Ma stai zitto Alessa’!> irruppe Antonio che aveva captato l’ultima parte della conversazione.
<La cuenta!>
Antonio parlava spagnolo con un accento calabrese fortissimo che peggiorava terribilmente quando beveva. Ci alzammo tutti insieme a fatica, pagammo e ci mettemmo in cerca del ristorante di tapas dove andavamo sempre. Josephine mi stava accanto e mi abbracciava come spesso succedeva il fine settimana. Il quartiere di Russafa era grande e variopinto. Alcune zone erano degradate ed altre ristrutturate con gusto e precisione. Le strade a senso unico erano fatte tutte praticamente allo stesso modo: un marciapiede da una parte e uno dall’altra, la carreggiata centrale e qualche spazio per parcheggiare. Il tutto contornato da palazzi con facciate dipinte di rosso, di nero, di bianco, di azzurro, di giallo o lasciate marcire nel tempo. I balconcini erano quasi tutti in ferro battuto decorati con varie forme geometriche, alcuni avevano delle piccole fioriere attaccate, altri erano spogli o con dei panni appesi. Gli edifici non erano molto alti, quattro o cinque piani al massimo e spesso, in cima, c’era un attico. Uscimmo in gruppo dal parco e ci avviammo in quello che per me, dato il mio spessimo senso dell’orientamento, era un labirinto. Ci mettemmo in fila per due, io e Josephine e Antonio e Francesca. Da una strada vicina arrivava il suono forte di una musica e, quando ci girammo, notammo un fumo denso e scuro.
<É scoppiato qualcosa, sicuro.> disse Francesca.
<Certo… e quindi mettono la musica per festeggiare!> rispose Antonio seguito dalle risate di tutti meno che da quella di Francesca.
Antonio ed io ci fermammo ed accendemmo una sigaretta ciscuno mentre le ragazze si avviarono verso il fumo e la musica. Le guardammo allontanarsi e notammo che iniziavano ad abbracciarsi e a ballare. Le raggiungemmo quasi immediatamente e, svoltato l’angolo, ci trovammo di fronte ad una falla, una festa di quartiere dove generalmente si brucia qualcosa. A pochi metri dal fuoco c’era un palco dove piú tardi avrebbe suonato un gruppo; in quel momento c’erano solo tre anziane sedute appena sotto di esso, molto vicine alle casse che sputavano musica dance  ad alto volume. Dopo il palco c’erano dei tavoli, ancora vuoti, dove ci si poteva sedere per mangiare. Al lato di essi alcuni volontari si davano da fare per preparare il bancone dove avrebbero servito birra, sangria e patatine fritte. Stavamo ballando solo noi quattro perché la festa non era ancora iniziata, Josephine e Francesca ballavano in circolo abbracciate. Antonio propose di prendere un’altra birra ma alla fine decidemmo di andare subito al ristorante di tapas e di andare a ballare solo dopo cena. Si era giá stufato di stare lì e quando aveva fame diventava piú scontroso del solito. In realtá aveva un animo buono e difficilmente si arrabbiava per davvero. I suoi modi erano comunque bruschi e spesso la gente lo prendeva per maleducato. Aveva comprato un piccolo sombrero che portava solo di notte quando uscivamo. Una volta me lo misi e mi disse “Alessa’, ci vuole classe per indossarlo” alludendo al fatto che mi stesse male. Ed aveva ragione. Le ragazze iniziavano a dare i numeri perció le indirizzammo con decisione verso la strada che ci avrebbe portato lontani da quel misto di rumore insopportabile ed odore di bruciato. Josephine aveva gli occhi brillanti di felicitá, il suo vestito stretto sembrava volersi liberare del corpo che intrappolava e le scarpe quasi non riuscivano a seguire i suoi passi decisi. Mi cercava con insistenza, portava le braccia intorno alla mia vita e stringeva forte, a volte fino quasi a far male. C’era qualcosa di attraente in lei. Forse quel biondo angelico mescolato con la sua mascolinità. Raggiungemmo il ristorante e notammo che l’unico tavolo all’aperto era occupato da quattro turisti che studiavano il menù. Di solito i proprietari ci lasciavano un posto tutto per noi all’interno, il che era un bene dato che l’aria condizionata ci avrebbe tolto un po’ di umiditá di dosso.
La cameriera si spostó un ciuffo di capelli ricci dal volto e scoprì il suo sorristo maturo.
<Siete quattro?>
<Sí, non stiamo aspettando nessuno> risposi.
<Accomodatevi, porto i menù> disse indicanto il nostro tavolo.
<Tre chiare ed un vaso di vino rosso per me> conclusi.
Si allontanò con un sorriso e noi ci sedemmo. Antonio si piazzò vicino a me. Avevamo Francesca e Josephine di fronte. Il locale era dipinto di un arancione stinto e le lampade emanavano una luce molto forte. Alle pareti erano appese vecchie locandine di grandi classici della cinematografia italiana e statunitense. Già sapevamo cosa ordinare: patate fritte con uova strapazzate e pancetta, cozze impepate e limone, calamari fritti ed ali di pollo fritte accompagnate da una maionese all’aglio. Tutto a Valencia sa di aglio: i ristoranti, le strade, il porto, le case, la gente.
Finimmo in fretta i nostri bicchieri e ne ordinammo degli altri, poi ci alzammo ed uscimmo a fumare. Sentimmo il caldo invaderci di nuovo ma non dicemmo nulla. Ci sedemmo su una grande panchina di pietra accanto al tavolo dei turisti molto a ridosso della strada. Le gambe iniziavano ad essere pesanti ma la testa era leggera e le energie non mancavano. Antonio si tolse di nuovo gli occhiali per asciugarsi il sudore dalla faccia e si passó un dito sui baffi come per pettinarli. Francesca si stava facendo una sigaretta ed aveva un’espressione triste, le capitava quando beveva molto di entrare in uno stato di ansia e di malumore. Si rese conto che la stavo osservado, alzó la testa, mi guardó un secondo ed abbozzó un sorriso.
<Ci stanno facendo aspettare stasera.> commentó Antonio.
<Siamo qui da dieci minuti> risposi.
<Troppo, troppo. Io ho giá fame da un pezzo.>
<Di certo non hai sete, mettila così…>
<E invece ho pure sete. Fame e sete. Non ci torno più qui.>
<Dovremmo provarne un altro effettivamente.>
<L’ultima volta ci hanno portato porzioni più piccole del solito. Iniziano ad approfittarsene.>
<Oggi che è sabato sarà anche peggio.>
Fumava lentamente ed aveva tutta l’aria di uno che scrutava l’orizzonte in cerca di qualche ragazza da ammirare.
<Stanotte fiesta!> urló Josephine come se la festa non fosse già iniziata.
Francesca sembrava sempre piú scura in volto e Antonio non le faceva caso. Passava lo sguardo dalla sua gonna viola al marciapiede come se stesse cercando qualcosa. Josephine inizió a ballare sulle note di una canzone che proveniva da una macchina che passava di lì. Io la seguii fino a quando il rumore dei bassi non si dissolse dietro l’angolo con l’auto. La cameriera, da dentro, ci fece cenno che le prime portate sarebbero arrivate a breve. Antonio e Francesca tornarono al tavolo in silenzio mentre io mi accesi un’altra sigaretta appoggiandomi alla spalla di Josephine.
<Sai chi mi piaceva prima di Amelie quando arrivai qui a Valencia?> dissi all’improvviso.
<No!>
<Tu!>
Strabuzzò gli occhi e per qualche minuto restammo senza parole, fumando e ondeggiando per il troppo alchol.
<Siamo coinquilini.> rispose distrattamente.
<Lo so, e quindi?>
<Con i coinquilini non si fa niente>
<Ma io ti piaccio, lo so>
<Mi voglio divertire, non voglio problemi coi miei coinquilini>
<Anche io mi voglio divertire e non voglio piú problemi con nessuno.>
<Come con Amelie.>
<Questo non ha nulla a che vedere con Amelie. Non me ne frega niente di Amelie>
<Perché non la lasci perdere. Siete una pessima coppia>
<Certo che la lascieró perdere. Non siamo nulla.>
<É una mia amica ma vi vedo malissimo insieme.>
<Insieme? In più di un mese avremo parlato decentemente solo una volta>
<Già, forse è timida>
<Forse è timida solo se deve parlare in spagnolo perchè in francese parla moltissimo, specialmente con Marine.>
<E con me..>
<E che ti ha raccontato?>
<Che non funziona nulla!>
<É la veritá…>
<Che però le piaci>
<Le piaccio se la tratto con indifferenza, a me questi giochi non piacciono. Non ho quindici anni.>
<Perché non me l’hai detto prima che ti piacevo?>
<Perchè a te piaceva Paulo e ti portasti a casa quel tuo amico belga una volta. Quindi pensai che sarebbe stato meglio lasciarti perdere>
Ridemmo di gusto e ci demmo delle amichevoli pacche sulle spalle. Iniziava a fissarmi con insistenza e credo che iniziai a farlo anche io. In realtá Josephina non mi stava neanche simpatica, i suoi modi erano bruschi ed era molto egoista. Sparlava spesso di quelle che definiva le sue migliori amiche ed era incredibilmente avara. Un genere di ragazza col quale non avrei mai voluto condividere nulla. Nonostante ció, mentre stavamo per rientrare nel ristorante, la presi per un braccio la portai con le spalle al muro e la baciai. Lei ricambió. Ci avviammo verso il nostro tavolo dove Antonio e Francesca interruppero bruscamente quella che sembrava una discussione fra coniugi. Ci sedemmo ed iniziai a parlare sottovoce con Antonio mentre le ragazze chiacchieravano come se nulla fosse.
<Che hai fatto Alessa’?>
<No, che hai fatto tu?>
<Hai la faccia di uno che ha combinato qualcosa>
<Forse, ma non è importante>
<Ma mi spieghi il perché?> disse lasciando intendere che aveva capito tutto.
<Non lo so>
<Sei contento adesso?>
<Non mi importa, ti sembra importante?>
<Era per fare due chiacchiere.>
<Tu mi spieghi che succede?> dissi alludendo alla discussione con Francesca.
<Niente, lascia perdere.>
<Mi devo preoccupare?>
<Ma di che?>
<Non lo so, non sono abituato a vedervi discutere.>
<Non è successo nulla, una stupidaggine>
Arrivó dell’altro vino, ora anche gli altri preferivano il rosso alla birra, e la cena era praticamente tutta a tavola, mancavano solo le ali di pollo fritte. Mangiammo e ridemmo. Le patate erano squisite ma poche, Antonio aveva ragione, da quando eravamo diventati clienti abituali le porzioni si erano fatte sempre piú piccole. Il troppo bere mi rendeva allegro ma la vista ogni tanto si offuscava. Francesca si stava mettendo le cozze nel piatto ed io tesi le mani perché mi passasse il vassoio. Me lo diede ma io non lo afferrai bene e mi versai molluschi ed olio su camicia e pantaloni. Se la ridevano tutti mentre io, che odiavo andare in giro macchiato, mi disperavo ed imprecavo in italiano. Avevo chiazze color petrolio ovunque, le mani viscide e non riuscivo bene a capire cosa fare per rimediare al danno. Le risate mi rimbombavano nella testa come tuoni e mi sentivo soffocare per il disgusto dell’odore forte che mi invadeva. Tirai un paio di respiri profondi, cercai faticosamente di recuperare il sorriso tentando di razionalizzare una situazione che non era poi cosí grave come mi sembrava. Sarei tornato all’appartamento che non distava molto da lí, avrei tolto quella camicia e me ne sarei messa un’altra dello stesso azzurro ma un po’ piú elegante. Decisi che avrei cambiato anche i pantaloni, non mi andava di andare in giro con quelli corti, avrei scelto tra un paio color verde o un altro color grigio. Asciugai parte dell’olio con un fazzoletto anche se credo che, cosí facendo,  allargai sensibilmente l’alone maleodorante. Ora che sapevo cosa fare per non andare in giro come uno zingaro il sabato sera mi sentii di nuovo tranquillo e lasciai che la mia testa leggera continuasse a godersi la serata. Amelie non mi mancava, pensavo a lei solo quando qualcuno me ne parlava e non provavo alcun dolore. Non provavo nulla. Non vedevo in Josephine un’alternativa né avevo voglia di divertirmi con lei se non per uscire e ballare come avevamo sempre fatto. Ero libero da qualsiasi vincolo affettivo per la prima volta dopo piú di otto anni. Bevemmo ancora vino e ci offrirono un chiupito di vodka chiascuno. Pagammo e ritornammo per strada diretti verso l’appartamento. Josephine ed io stavamo ballando al ritmo della musica che veniva dalla strada, Antonio e Francesca erano nervosi ma non avevamo tempo per loro. Il cielo era rosso sopra di noi mentre passeggiavamo costeggiando la strada che attraversavamo senza una ragione di quando in quando. Le luci delle insegne dei bar ci sovrastavano ed ogni tanto saltavo in alto per toccarne una di quelle che sporgevano di più. I tavoli all’aperto erano tutti pieni di gente d’ogni tipo, Russafa era un quartiere gay come il Carmen e come un po’ tutta Valencia, spesso gli uomini mi squadravano nella speranza che ricambiassi lo sguardo. Sbucammo sulla Gran Vía facendoci inghiottire dal rumore del traffico e dal fiume di gente che la percorreva. Non vedevamo piú Francesca ed Antonio cosí, arrivati al portone di ferro dell’appartamento, infilai la chiave nella toppa e salimmo la prima rampa di scale che portava all’ascensore. Ballavamo senza musica nell’attesa che arrivasse, poi salimmo al quinto piano. L’odore dell’edificio ricordava quello di una cantina mal areata dove qualcuno aveva cucinato e fumato allo stesso tempo. Lo zerbino marrone era malposto ed io lo scaraventai lontano scalciandolo col piede. Entrammo in casa come bisonti imbizzarriti, davanti a noi ci accolse un grande specchio che riflesse i nostri volti arrossati dall’alcol.  A destra c’era la sala da pranzo con una gran finestra ed un piccolo balcone, a sinistra il lungo corridoio che portava alle stanze ed alla cucina. Mi fiondai nella mia camera, che poi era la piú vicina al salone, mentre Josephine scompariva dietro di me. Non chiusi la porta e mi liberai in fretta di quei vestiti sporchi. Per pochi secondi avvertii un senso di fresco sul petto e sulle spalle. Tutto era in disordine, la valigia aperta sul tavolo vomitava vestiti acciaffati, il letto era sfatto e c’era il ferro da stiro sulla tavola aperta davanti all’unica finestra. Il pavimento era coperto di calze e scarpe. La camicia ed i pantaloni che cercavo, invece, erano ben riposti nell’armadio e mi infilai tutto in fretta ma con precisione. Andai in bagno, aprii il rubinetto e mi schizzai dell’acqua fra i capelli per ammorbidirli e li aggiustai col gel. Josephine aveva acceso lo stereo e la vidi ballare per il corridoio lavandosi i denti . Irruppero in casa con un tal frastuono Antonio e Francesca che mi girai di scatto credendo che Josephine fosse scivolata. Invece vidi Francesca che mi disse fissandomi negli occhi <Io esco con voi!>. Le risposi che a me stava bene ma non feci in tempo a vedere la faccia di Antonio che giá se ne era andato a letto sbattendo la porta. Josephine l’abbracció gridando <Vamos!>, facendole vibrare forte i capelli lunghi come sopresi da un’onda improvvisa. Andai a mettermi le scarpe nel salone e mi sedetti su uno dei due divani rossi appoggiati alle pareti. C’era un solo quadro che raffigurava due donne nere che portavano delle brocche d’acqua sulla testa e, sullo sfondo, si apriva un orizzonte infuocato dal tramonto. Il tavolo era d’un marrone scuro, quasi nero, d’un legno per niente pregiato e le sedie scricchiolavano pericolosamente se ti ci appoggiavi. Per terra uno strato di polvere misto a residui di qualche liquido caduto e mai pulito davano una sensazione di sudicio raccapricciante.